The United States of America

versus one Book called Ulysses

 

 

«La mattina del 2 febbraio 1922, quarantesimo compleanno di James Joyce, Sylvia Beach, propietaria a Parigi della libreria e biblioteca circolante Shakespeare & Co., era alla Gare de Lyon, in nervosa attesa del primo treno da Digione. Era il culmine di undici mesi di tensione quando aveva proposto allo scrittore irlandese di pubblicargli il romanzo i cui frammenti, apparsi in rivista, avevano scatenato le ire dei censori. […] Ricorda Sylvia Beach che quella mattina […] la sua agitazione diventò parossistica all'apparire, alle 7 in punto, sotto le arcate di vetro della Gare de Lyon e tra i soliti sbuffi di vapore, della locomotiva dell'espresso da Digione. Né si calmò quando il capotreno scese dal vagone di testa, un pacchetto in mano, cercando con gli occhi a chi lo dovesse consegnare. Corse a farsi riconoscere e l'uomo le rimise il pacchetto – conteneva le prime due copie di Ulysses che la proprietaria di Shakespeare & Co. si precipitò in tassì a consegnare all'autore, al numero 9 di rue de l'Université».1

 

Una quarantina di anni dopo, in Italia, in una nebbiosissima giornata di ottobre del 1960, un camion che trasportava merce molto pericolosa, finiva nel Po con tutto il suo carico. La situazione, che ricordava il film Vite vendute (Le salaire de la peur, Clouzot 1953), ebbe come conseguenza la perdita di migliaia di copie della prima edizione italiana del romanzo di Joyce, tradotto da Giulio de Angelis con la consulenza da Glauco Cambon, Carlo Izzo e Giorgio Melchiori, e che recava il numero 441 della mitica collezione Medusa di Arnoldo Mondadori Editore.

Da quel momento anche in Italia si cominciò a leggere in maniera massiccia il libro di Joyce, che fino ad allora era stato studiato solo dagli “addetti ai lavori”. L'eco del romanzo risuonava nel nostro paese da molto tempo, come documentato da alcune critiche stilate da competenti accademici che si erano occupati con notevole acume dell'opera dello scrittore irlandese:

 

«... egli conferisce alla sua rivolta un carattere impuro e sovvertitore col togliere dall'altare Roma Universa, per riporvi l'idolo dorato dell'internazionalismo ebraico: internazionalismo che da parecchi anni regge troppe iniziative del pensiero moderno. La realtà è che Joyce ha fatto la corte a quell'organizzazione giudaica, lanciatrice di uomini e di idee, che ha tenuto campo specialmente a Parigi...».2

 

E al Giorgianni faceva eco un anonimo studioso:

 

«Ma forse il pericolo maggiore è nella prosa narrativa, dove a cominciare da Italo Svevo, ebreo di tre cotte, ad Alberto Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della società figure ripugnanti di uomini che non sono «uomini» ma esseri abulici, infangati di sensualità bassa e ripugnante, malati fisicamente e moralmente... I maestri di tutti cotesti narratori sono quei pazzi patologici che si chiamano Marcel Proust e James Joyce, nomi stranieri e di ebrei sino al midollo delle ossa, e disfattisti sino alla radice dei capelli».3

 

Eppure, anche in quegli anni bui, si potevano trovare delle voci che si esprimevano in maniera non ideologica; a proposito della Veglia di Finnegan, nella bellissima edizione Frassinelli di Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane nella traduzione di Cesare Pavese, si poteva leggere, per la firma di Alberto Rossi:

 

«... l'inglese è la sola lingua nella quale una simile esperienza, e su tale scala, poteva venire tentata, per quella specie di dissolvimento atomico cui la materia verbale è incorsa, che l'ha spogliata da ogni rigidità etimologica e sintattica, fornendo la possibilità almeno teorica di sempre nuove combinazioni tra quegli elementi liberati. Un magnifico esempio di linguaggio espressivissimo, creato dal nulla, si ha in un libro per bambini, che è il seguito di quell'«Alice nelpaese delle meraviglie» noto in tutto il mondo. In quest'altro, che ha ancora per eroina la medesima Alice e per titolo «Throug the looking glass» (Traverso lo specchio), l'autore Lewis Carroll ha introdotto una poesia scritta quasi tutta in un linguaggio di sua invenzione, e in cui pure le parole si presentano con un'aria naturalissima, come se alla lingua avessero appartenuto da sempre. Pure quelle parole, per quanto bellissime ed assai espressive come sonorità, non sono mai uscite da quel libro per entrare nella vita. Si può pensare che sarà il medesimo di quelle coniate da Joyce».4

 

E Joyce, James Joyce, sceglie la data del 16 giugno (1904) come data di inizio della sua nuova vita. Prima di allora era stato soltanto un brillantissimo studente cattolico cha aveva frequentato le scuole gesuitiche del Clongowes Wood College, del Belvedere College ed infine del l' University College Dublin. Il giovane studente, il giovane artista, è un attento lettore di Ibsen e Yeats, e studia la filosofia di Aristotele, Tommaso, Dante, Bruno, Vico. Volendo fare un suo “ritratto”, si potrebbe parlare quindi, come propone Umberto Eco, del Ritratto del tomista da giovane.5

 

«A Nora Barnacle, 60 Shelbourne Road, 15 giugno 1904.

Potrei essere cieco. Ho seguito a lungo dei capelli bruno-rossicci e ho concluso che non erano i tuoi. Sono tornato a casa molto abbattuto. Vorrei fissare un appuntamento ma potrebbe non andarti bene. Spero che sarai così buona da concedermene uno – se non mi hai dimenticato! James A Joyce».6

 

16 giugno 1904: il dado è tratto! Grazie anche alle sapienti mani di Nora, James, Jim diventa uomo e prende la sua storica decisione: via da Dublino e inizio di quella vita nova in giro per l'Europa che avrà il suo culmine la mattina del 2 febbraio 1922, con la consegna a domicilio delle prime due copie di Ulysses. Odisseo, il cui esilio era durato molto meno di quello di Joyce è la musa ispiratrice del romanzo. I tre personaggi principali del libro, Leopold Bloom, Stephen Dedalus e Molly (Bloom) sono le tre figure omeriche genialmente catapultate a qualche millennio di distanza.

 

«Ti voglio dire quello che farò e quello che non farò. Non servirò ciò in cui non credo più, si chiami questo la casa, la patria o la chiesa: e tenterò di esprimere me stesso in un qualche modo di vita e di arte, quanto più potrò liberamente e integralmente, adoperando per difendermi le sole armi che mi concedo di usare: il silenzio, l'esilio e l'astuzia».7

«Ulysses inizia con un atto di ribellione, una parodia liturgica, e con un fuoco di fila di battute goliardiche eversive e sprezzanti. Nel secondo capitolo Stephen, come nel primo ha riconfermato la crisi dell'educazione religiosa, mette sotto accusa i maestri della sua educazione civile, la generazione della gente per bene, i pontefici del pregiudizio codino e filisteo. Nel terzo capitolo, infine, l'attacco viene sferrato contro la filosofia: il vecchio mondo messo in dubbio non nelle sue manifestazioni accidentali, ma proprio nella sua natura di cosmo ordinato, di universo compiuto e definito in modo univoco secondo le regole inalterabili di una sillogistica che è quella aristotelico-tomista.

Una allusione ad Aristotele apre il capitolo: la natura della citazione (un brano del De Anima) è accessoria: ciò che conta è il richiamo e il fatto che Stephen cominci la sua passeggiata lungo la spiaggia pensando ad Aristotele. Ma Stephen fa di più: pensa come Aristotele».8

 

I personaggi del romanzo si muovono in quella Dublino tanto amata da Joyce e contro la quale lancerà i suoi strali per tutta la vita. Non possono a questo riguardo non venire in mente situazioni analoghe di amore-odio di altri famosissimi “esuli”: la Praga di Kafka (questa mammina con gli artigli) o la Vienna di Bernhard.

Leopold Bloom incarna questo scollamento, questa eradicazione, questa scissione propri di Joyce, Kafka, Bernhard e di tanti altri uomini del novecento: è un dubliner DOC, ma per la sua discendenza ebraica non potrà mai essere accettato alla pari nelle partite a freccette nei pub di Dublino; è un marito felice ma nel frattempo sua moglie Molly..., avrebbe voluto essere un buon padre, ma le circostanze avverse della vita non glielo hanno concesso: il suo rapporto con Dedalus sta lì a dimostrarlo.

E proprio per questo è lui il personaggio principale, l'uomo del novecento, il flâneur dublinese:

 

«il protagonista è Leopold Bloom e non Bloom come individuo ma Bloom come tipo. Oltre il suo essere contingente, oltre le determinazioni di razza, ambiente e tempo (presentate esaurientemente), Bloom cresce e si innalza a impersonare, in maniera universalmente valida, la natura umana. Per questo porta il nome “binomico” di ognuno o nessuno. È l'Everyman della moralità medievale, ma anche il Nessuno (Utis) dietro cui si nasconde Ulisse di fronte al Ciclope».9

 

E, volendo metterla un po' più sul “mistico”:

 

«... in Ulysses non c'è soltanto la relazione distorta di un ordine medievale che si ribella a se stesso. Come diceva Jung esso è “un vero libro di devozione per l'uomo dalla pelle bianca... un esercizio, una ascesi, un rituale tormentoso, un procedimento magico, diciotto alambicchi d'alchimia in catena, e in essi si distilla con acidi e vapori velenosi, col freddo e col caldo, l'omuncolo di una nuova coscienza del mondo”. Nello Ulysses prende forma un'immagine dell'uomo e dei suoi comportamenti quale sarà poi approfondita dall'antropologia filosofica contemporanea e in particolare dalla fenomenologia».10

 

Una conclusione, almeno provvisoria, di questo discorso la potremmo prendere in prestito dalla signora Bloom quando, alla fine del suo stream of consciousness, alla fine della notte, alla fine del libro, dice...:

 

«...domani il sole splende per te à detto lui il giorno che eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel vestito di tweed grigio e il cappello di paglia il giorno che mi sono fatta fare la proposta sì prima gliò passato quel pezzetto di torata ai semi di cumino direttamente dalla bocca ed era un anno bisestile come adesso sì 16 anni fa mio Dio dopo quel bacio lungo quasi mi mancava il fiato sì ero un fiore di montagna à detto sì siamo tutte dei fiori il corpo di una donna è un fiore sì la sola cosa giusta che à detto in vita sua e il sole splende per te oggi sì è per questo che mi piaceva perché vedevo che capiva o sentiva quello che è una donna e sapevo che lo potevo agirare quando mi pareva e gliò dato tutto il piacere possibile per spingerlo finché non mà chiesto di dire sì e io prima non rispondevo guardavo solo il mare e il cielo stavo pensando a così tante cose che lui non sapeva Mulvey e Mr Stanhope e Hester e suo padre e il vecchio capitano Groves e i marinai che giocavano agli Uccelli in volo e Inchinati ti dico e Lavapiatti lo chiamavano sul molo e la sentinella davanti alla casa del governatore con quella cosa intorno al berretto bianco povero diavolo mezzo abbrustolito e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli e i capelli pettinati in alto e le aste al mattino i greci e gli ebrei e gli arabi e lo sa soltanto il diavolo chi altri ancora da ogni angolo in Europa e Duke street e il mercato del pollame un chiocciare continuo fuori dal Larby Sharons e i poveri asinelli che sdrucciolavano mezzi addormantati e quei tipi indistinti nei loro mantelli a dormire in ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri di buoi e il vecchio castello vecchio migliaia danni sì e quei bei mori tutti vestiti di bianco coi turbanti come i re che ti chiedevano di sederti nei loro negozietti e Ronda con le vecchie finestre delle posadas Occhi brillanti una grata celava per il suo amante spagnolo che bacia il ferro e le vinerie mezze aperte di sera e le nacchere e la sera che abbiamo perso la nave ad Algeciras la sentinella avanti e indietro sereno col suo lume e O quel torrente profondo spaventoso O e il mare il mare cremisi a volte come il fuoco e gli splendidi tramonti e gli alberi di fico nei giardini del Alameda sì e tutte quelle stradine strane e le case rosa e blu e gialle e i giardini delle rose e il gelsomino e i gerani e i cactus e Gibilterra da ragazza dove ero un Fiore di montagna sì quando mi sono messa la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o dovrei portarla rossa sì e come mà baciato sotto le mura moresche e ò pensato bè lui o un altro che cambia e poi gliò chiesto cogli occhi di chiederlo ancora sì e poi me là chiesto se volevo sì dire sì mio fiore di montagna e prima lò abbracciato sì e lò fatto stendere su di me per fargli sentire i miei seni tutti profumati sì e il suo cuore che impazziva e sì ò detto sì lo voglio Sì».11

 

1 P. Sanavio, I trabocchetti dell'osceno Ulysses, in Alias, 15 aprile 2012, pp, 6-7. Corsivi nostri.

2 E. Giorgianni, Inchiesta su James Joyce, Epiloghi di Perseo I, Stabilimento Tipografico Littorio, Milano 1934, pp. 18-19. Citato da U. Eco, Ostrigotta, ora capesco in J. Joyce, Anna Livia Plurabelle nella traduzione di Samuel Beckett e altri, Einaudi, Torino1996, p. XIII.

3 Giudaismo letterario, in «L'Unione Sarda», 14aprile 1939, cit. da R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961, p. 446. Cfr. U. Eco, op. cit., p. XIV.

4 A. Rossi, Introduzione a Joyce in J. Joyce, Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane, versione di Cesare Pavese, Frassinelli, Torino 1943, pp. XV-XVI.

5 U. Eco, Le poetiche di Joyce, Bompiani, Milano 1989, pp. 25-44.

6 J. Joyce, Lettere, Mondadori, Milano 1974, p. 46.

7 J. Joyce, Dedalus. Ritratto dell'artista da giovane, Frassinelli, Torino 1943, p. 384.

8 U. Eco. op. cit. p. 63.

9 E. R. Curtius, James Joyce e il suo Ulisse, in AA. VV., Introduzione a Joyce, Mondadori, Milano 1967, p. 1128.

10 U. Eco, op. cit. p. 108.

11 J. Joyce, Ulisse. (Traduzione di Enrico Terrinoni con Carlo Bigazzi), Newton Compton, Roma 2012, pp. 740-741.

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