a parlare non è l'uomo, ma è il linguaggio stesso1.

  

Un saluto, dunque, a sua maestà

l’inconscio o la parola,

che al di là di tutto, malgrado che

si voglia vivere come se non ci fosse,

veglia su di noi più di quanto

noi vegliamo su di lui2.

 

  

Heidegger scrive che «è il linguaggio, lui solo, quello che propriamente parla. E il linguaggio è solitario. Sennonché solitario può essere soltanto colui che non è solo: vale a dire che non è separato, isolato, senza alcun rapporto»3.

 

 

È possibile che Heidegger, come altre volte, stia pensando a Hölderlin, al suo «noi siamo un colloquio»; o un dialogo (Gespräch).

Tuttavia, «la riproducibilità tecnica del linguaggio si annoda al piano utilitario (ho sete-eccoti da bere; sto male-eccoti il farmaco) divenendo cifra ultima del rapporto umano»4.

È possibile che quella strana solitudine (solitario può essere soltanto colui che non è solo) sia il perno, la scala, il gradus, su cui possa fondarsi il senza-fondo di una «r-esistenza del pensiero che pensa altrove rispetto a quell'Io psicosomatico che la tradizione culturale occidentale ci conduce ad immaginare come istanza unitaria dell’umano»5?

Se no, è inutile cercare. Se si, passione della domanda.

È quel che viene. Proviamo.

Si dà qui una questione di finitudine (ogni potere è finito). Cui qualcosa nell’umano tenta di porre rimedio tramite una sorta di finzione del malgrado, ovvero la messa in scena di una padronanza che dovrebbe suturare il malgrado, il male della non padronanza in ogni suo grado. Tuttavia tale fiction non può che essere una narrazione po’ tesa: «Finzione in tensione, come se il soggetto fosse appeso al filo tracciato dal suo stesso movimento, soggettivazione-desoggettivazione, sull'abisso della verità»6.

Ma «c'è da intendersi, tuttavia sulla dimensione propria di questa finzione: non sotto il segno della morale, cioè del non dire il vero, affermare volontariamente il falso adescando per mezzo della menzogna, tutt'altro. La finzione in funzione è da cogliere nell'accezione dell'invenzione o, per dire meglio, della costruzione: imposizione ed es-posizione del come se; attività finzionale, dunque, tesa a dar figura, a rappresentare»7.

Es-posizione: non è un limite che poggi su un fondamento infinito e in un rapporto imminente di dominio su questo infinito. La finitezza dipende dal fatto che la sua alterità non finisce mai di essere altra, che si differenzia incessantemente o che diversifica il suo gradus, il luogo cui di volta in volta appartiene. Altro non si identifica con l'altro. Infinitamente alterato, e infinitamente annunciato, l'altro mette fine senza sosta all’identificazione e all'assunzione del rapporto in una comprensione finita.

Tutto questo perché il linguaggio, la parola, è sola. Ma poiché “solitaria può essere soltanto colei che non è sola”, occorre provare a dire di questo grado di non-solitudine intimo all’essere sola. Gradino tanto importante da essere mal gradito all’onnipotenza della morale utilitaria.

In un’analisi vale la questione di Paul Celan: «Nessuno testimonia per il testimone8». Resta lì, domanda appesa alla parola e al malgrado cui riporta.

 

[…] in psicoanalisi il soggetto può parlare nella misura in cui c'è un resto che testimonia per lui.

Un resto che può incorrere in negazione (Verneinung), rinnegamento (Verleugnung) e rigetto (Verwerfung), non necessariamente distrutto, dunque, sicuramente rimosso; nessuno muore così povero da non lasciare nulla in eredità, in questo detto Pascal ci consegna la questione del “resto” come un lascito prezioso non ubicabile in una unicità, in un fine oggettuale, nella composizione di una realizzata identità9.

 

Parlanti, in mezzo a una domanda senza fine, che quel che chiamiamo parola non può mai essere da noi ridotta a strumento. Anche se a volte gradisce questa caratteristica, proprio come la domanda a volte si riposa diventando una risposta, senza per questo cessare di essere domanda.

La risposta male dice la domanda. È il suo malheur, la sua cattiva ora, la sua infelicità.

La psicanalisi, nella sua ricerca e nella sua opera, non aggiusta, non promette, non risponde. Essa domanda. E poiché la domanda è quel gradino all’interno della solitudine che sola lascia parlare, ecco che il rivolgersi all’altro non solo non colmerà vuoti ma li farà velare ancora, fino a gradire la loro parola.

Gradire un’etica. Questa è la psicanalisi. La tesi di Lacan, “etica è non cedere sul proprio desiderio”, non si lascia acquietare in una formula da salotto. Implica che etica - intrattabile non cedere - sia un lavoro. È questo lavoro il guadagno, il gradimento (possiamo dire: godimento? o forse è ancora presto, nel nostro tempo?) di un’analisi?

Il piacere dell’analisi, non è detto che sia dell’umano. Può darsi che lei goda e io no. Che malgrado. D’altronde, Freud è stato inflessibile. Il piacere di un sistema (per esempio Inc) è dispiacere per un altro (per esempio la coscienza, o l’io). Strani esseri siamo; mai una volta che si goda tutti nello stesso momento. Che disdetta. Viene il sospetto che se l’umano avesse con il suo Incungodimento simultaneo diverrebbe definitivamente cretino.

Ma torniamo alla questione. Che è la mancanza del certo grado.

 

[...] all'uomo come è e come sarà appartiene una mancanza essenziale da cui deriva il suo diritto di mettere eternamente in questione se stesso10.

 

Intendo ciò come passo preliminare per la questione del “diritto alla parola”11.

Senza grado certo, cosa ne viene? Ci si guadagna un’etica. E il gradimento dell’etica si traduce nel tentativo di saperci fare con l’impossibile.

Per questa via saliamo ancora il gradino della clinica, l’analisi o comunque la vicenda per cui una persona prova a rivolgere una parola che suppone propria a qualcun altro cui suppone la passione di ascoltarla. Il saperci fare è il punto più alto dove l’analista può pensare di poter condurre la Cura, l’analisi, e quindi la parola dell’altro. Luogo di eccellenza che tutto è fuorché un privilegio spendibile o una promessa. Saperci fare - con l’angoscia, se stesso o l’inconscio - è soltanto un savoir faire. Un atteggiamento, una modalità. Non si parla di certezza, da queste parti. Infatti, scrive Blanchot, ancora:

 

L'«io», in un certo senso, non si perde perché non si appartiene. È dunque io soltanto come non-appartenente a sé, e dunque come già sempre perduto12.

 

L’io che mal grada, poco gradisce la finitezza e la «r-esistenza» di quel pensiero che lo sovrasta, è sempre convinto di avere molto da perdere, abituato e abilitato a una sorta di coazione a dover per forza guadagnare e vincere un posto, che è invece il viatico più probabile per essere sconfitto.

parole, male-dette parole13.

E dunque. Quel posto - posto bene, indubbiamente, posto a posto -, sotto la penna di Melanie Klein14 è un caso dell’ein-stellen, postare l’uno, fare posto all’identico:

 

Il posto in quanto Einstellung rivela una condensazione, quindi una struttura di copresenza e di ambivalenza. Vi si dà dell’einstellen – che è il mettere, il regolare, l’azionare un orientamento in un modo o nell’altro, porre un colpo d’avvio, qualcosa come Uno, iniziale – ma è di questo ein- che si tratta, non del numero “uno”, bensì dell’articolo giustamente detto indeterminativo: un articolo triste, costretto com’è a numerare suo malgrado, appeso come sta all’indeterminatezza15.

 

Il malgrado di una parola triste, il suo dovere di diventare solida, certa, non di buon grado.

Lei, che vorrebbe che il suo resto restasse indimenticabile16.

Si potrebbe dire della parola la stessa lieve sequenza che Freud afferma a proposito dell’inconscio, forse. La parola non conosce né la morte né il tempo, né maschile e femminile, né la differenza tra assenza e presenza e neppure, forse, esserci o non esserci.

Tuttavia la parola ha un problema: che a lei appartengono gli umani.

Forse occorre continuare a lasciar produrre frammenti, che riguardino in maniera esplicita proprio questo evento, questo strano evento per cui così, con un’andatura quasi da fiaba, potremmo pensare alla parola come a un, non so, ente, essere, evento, che non conosce la morte né il tempo né la fine né la differenza dei sessi, ma che, sfortunatamente forse per lei, e tuttavia imponendoci un rapporto complicato, a lei noi apparteniamo.

La parola è sola perché niente e nessuno può provare la solitudine se non in presenza di un altro. Malgrado noi, meglio di noi, la parola sa che è sola perché sa che accanto ha altre parole, tantissime, infinite, ma sa anche che la sua vita, la vita delle parole, dipende solo dal fatto che le altre non le può mai prendere, afferrare fino alla fine, perché sarebbe la fine di tutte, anche la sua, se le parole fossero prese.

L’analisi non è la tecnica per catturare le parole, è l’arte di liberarle.

 

Non ostante tutto, la psicanalisi

(togliamo gli ostanti, gli hostes, i nemici,

ne viene):

non tutto, la psicanalisi.

 

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 Note:

 

1 F. Fabbri, Malgrado tutto, la Psicoanalisi, p. 2.

2 A. Zino, La passione dell’Altro, Edizioni ETS, Pisa 2008, p. 213.

3 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1988, p. 209

4 F. Fabbri, cit., p. 2.

5 Ivi.

6 Ivi.

7Ivi.

8 P. Celan, Atemwende (Aureola di cenere), in Poesie, Mondadori, Milano 1998, p. 625.

9 Ivi, p. 5.

10 M. Blanchot, L’infinito intrattenimento, Einaudi, Torino 1977, p. 277. Nel testo Blanchot mette una nota piuttosto significativa: “«Appartiene?» Si, ma nel senso di un appartenere senza appartenenza; di nuovo un rapporto che si sottrae a se stesso”.

11 Cfr. l’inizio del seminario di quest’anno.

12 M. Blanchot, La scrittura del disastro, SE, Milano 1990, p. 82.

13 F. Fabbri, cit., p. 2.

14 Che tuttavia non si accorge di queste implicazioni.

15 A. Zino, L’incertezza delle voci. Per una psicanalisi dello sviluppo, Edizioni ETS, Pisa 2002, p. 109.

16 F. Fabbri, cit., p. 5.

 

 

 

 

 


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