[...] Una generazione può imparare molto da un'altra generazione; ma quel che è propriamente umano, nessuna generazione lo impara da quella che precede. Da questo punto di vista, ogni generazione ricomincia come se fosse la prima, nessuna ha mèta nuova al di là di quella di ogni altra generazione precedente né giunge al di là di quella, seppure quella generazione non ha tradito i propri compiti, se non ha ingannato se stessa. Ciò che io chiamo propriamente umano, è la passione, in cui ogni generazione comprende completamente l'altra e comprende se stessa. Così, per quanto riguarda l'amore, nessuna generazione insegna all'altra ad amare, nessuna generazione comincia ad un punto che non sia il principio, nessuna generazione ulteriore ha un compito più breve della precedente; e se non vuole contentarsi come le generazioni precedenti, dell'amore, ma vuole andare oltre, non dirà, con questo, altro che vane e malvagi parole [...][1].

 

 

Nella vita quotidianamente ordinaria, nella vita di tutti i giorni, le persone parlano, parlano e parlano: al bar, nei ristoranti, in autobus, nell'attesa all'ufficio postale e in qualsiasi altro luogo di riunione di anime, l'essere umano non smette mai di parlare.
Si parla animatamente, che so, della propria squadra calcistica del cuore, del partito politico, della crisi economica; o ancora si discute, per giustificare questo o quello della realtà in cui viviamo, delle proprie storie di vita a dispetto di quelle attuali - le “nuove generazioni”- a cui segue, o alternativamente vien posto come incipit, lo slogan presto fatto «non è più come prima, ai miei tempi...».

Ovviamente parlare non riguarda soltanto una dimensione ricreativa e di intrattenimento. Si parla al supermercato, a scuola, in caserma, in ospedale e, per non farla troppo lunga, perfino al cimitero. L'essere umano non può davvero non parlare.
Per il cittadino ordinario, l'assenza non è più pensabile se non altrimenti sedotta nel virtuale: i social net-work, se si è connessi, ci rendono possibile il ribaltamento dell'assenza in immediata presenza e simultaneità. La disconnessione non è tollerabile.

I rapporti umani, quei filamenti della rete - net - quanto più immaginari e pertanto necessari, tra coloro che parlano sono diventati un lavoro - work - liturgico e non deve pertanto sconvolgere la richiesta di tecniche al fine di mediarli e gestirli, rendicontarli ed operativizzarli.
Il linguaggio nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, divenuto puro fine, si esplica nella dimensione comunicativa ed espressiva. Lo scambio comunicativo diventa “simbolo” dell'intesa, dell'accordo, di un linguaggio comune monopolio della com-prensività dal quale non è prevista estradizione. La riproducibilità tecnica del linguaggio si annoda al piano utilitario (ho sete-eccoti da bere; sto male-eccoti il farmaco) divenendo cifra ultima del rapporto umano.

Ciò nonostante “un orecchio” invisibilmente curioso ascolta i discorsi di tutti i giorni e, se non ne sarà troppo angosciato o irretito, ascolterà i loro irrinunciabili scivolamenti, fra-mmenti che emergono qua e là e, pure, al di là dell'oggetto di cui si parla: parole invertite, nomi sostituiti, parole dette male, inciampi e accidenti linguistici.... parole, male-dette parole.

L'orecchio si “fa” occhio: gesti bizzarri, distratti, non congruenti al copione comportamentale atteso e richiesto (da chi?); così eccedenti, accedono allo sguardo, mostrando la r-esistenza del pensiero che pensa altrove rispetto a quell'Io psicosomatico che la tradizione culturale occidentale ci con- duce ad immaginare come istanza unaria dell'umano; altrimenti, all'altalena “gratificazione- frustazione” della logica utilitaria.

L'occhio si “fa” infine pensiero per interrogarsi: «Chi parla?», «che significa parlare?», «non smettiamo mai di parlare, neppure la notte quando dormiamo; i nostri sogni parlano e ci parlano, quindi il parlare non nasce da un particolare atto di volontà; l'uomo è uomo in quanto parla...». Il pensiero, attraverso la voce, tenta la strada della metafisica, della filosofia, e tra logica e contraddizioni, concetti, tautologie e balbettii dirà che a parlare non è l'uomo, ma è il linguaggio stesso.

Nella ricerca tra il detto, già detto e non detto, tra enunciato ed enunciazione, si giungerà ad incontrare il soggetto:

 

[…] prendere veramente sul serio l'enunciato io parlo significa, infatti non pensare più il linguaggio come comunicazione di un senso o di una verità da parte di un soggetto che ne è titolare e il responsabile; significa piuttosto, considerare il discorso nel suo puro aver luogo e il soggetto come «l'inesistenza nel cui vuoto s'insegue senza tregua l'effondersi indefinito del linguaggio». L'enunciazione segna, nel linguaggio, la soglia fra un dentro e un fuori, il suo aver luogo come esteriorità pura e, una volta che referente principale d'indagine diventano gli enunciati, il soggetto si scioglie da ogni implicazione sostanziale e diventa pura finzione o pura posizione[2].

 

Finzione in tensione, come se il soggetto fosse appeso al filo tracciato dal suo stesso movimento, soggettivazione-desoggettivazione, sull'abisso della verità. C'è da intendersi, tuttavia sulla dimensione propria di questa finzione: non sotto il segno della morale, cioè del non dire il vero, affermare volontariamente il falso adescando per mezzo della menzogna, tutt'altro. La finzione in funzione è da cogliere nell'accezione dell'invenzione o, per dire meglio, della costruzione: im- posizione ed es-posizione del “come se”; attività finzionale, dunque, tesa a dar figura, a rappresentare.

«Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo» questo l'esergo de L'interpretazione dei sogni - Die Traumdeutung – incipit dell'opera freudiana che inaugura la graduale costruzione dell'edificio teorico della psicoanalisi.
Nella parola scambiata dell'analisi, l'analizzante in “osservanza” della regola fondamentale, associazione libera, inscrive il dire in un registro particolare di libertà, una libertà pre-scritta: dire tutto quello che passa per la testa, senza censura, senza pre-giudizio, anche ciò che può apparire sconveniente[3]; il dire dell'analizzante crea densità alla soglia tra enunciato ed enunciazione, ed in- contra limite e possibilità, o per meglio dire, traccia della significazione. Come nelle lacune del testo scritto, nel contenuto manifesto del sogno, detto, prende corpo un nuovo materiale psichico, contenuto latente o pensiero onirico, non detto, che punta all'ignoto; come il vento, la deflazione freudiana smuove le acque torbe dell'Acheronte psicologistico della coscienza, appoggiandosi alla semplice, al contempo enigmatica, immagine dell'ombelico:

 

«Ogni sogno ha perlomeno un punto di insondabilità, quasi un ombelico attraverso il quale è congiunto con l'ignoto.»[4]

 

Commettitura di dicibile ed indicibile, di possibilità nel campo dell'impossibile; luogo, in-fine, del soggetto del desiderio, delle pulsioni e delle loro vicende.
Scrittura geroglifica, rebus, il sogno diventa la formazione psichica attraverso cui l'essere umano fa ritorno all'infante, «che non parla, che non sa o non può parlare», in cui il soddisfacimento per via regressiva attraverso l'immagine “presentifica” un oggetto al desiderio solo sul piano allucinatorio. Secondo l'esperienza comune, in-fatti, il desiderio è considerato come impulso, anelito, brama dell'Io verso un oggetto che può essere appagato o frustrato; si crede che coincida con l'enunciato e quindi che l'oggetto del desiderio possa essere domandato, rifiutato e ottenuto da un altro, dall'altro. La posizione psicoanalitica introduce, in-vece, una dissimetria tra domanda e desiderio, tanto da qualificare la domanda non sul piano dell'oggetto, ma sul piano del sapere intorno alle questioni della vita e della morte: «chi sono, da dove vengo, dove vado?». Domande fondamentali, si dice, seppur restano perlopiù rimosse causa vertigine di spossessamento, di orrore per non fondamento; incontro del soggetto con il limite del patrimonio simbolico.

Se la realtà è quella sorta di corrispondenza temporale tra dati percettivi della coscienza e mondo esterno, le formazioni dell'Inconscio, dello «psichico reale nel vero senso della parola»[5], sovvertono tale convenzione introducendo la temporalità non in una dimensione spazio-temporale, bensì logica: in un certo senso ricorda il sensismo di secondo grado di Wittgestein, post-linguistico, effetto del gioco dei significanti. La realtà è, un esame:

 

« [...] il cui fine non è dunque quello di trovare nella percezione reale un oggetto corrispondente al rappresentato, bensì di ritrovarlo di convincersi che è ancora presente. [...] Si riconosce come condizione necessaria per l'instaurarsi dell'esame di realtà il fatto che siano andati perduti degli oggetti che in passato avevano portato a un soddisfacimento reale.»[6]

 

La realtà è de-notata. Nella sua cifratura intorno ad un vuoto in perdita, la realtà fa ritorno per il soggetto attraverso un fantasma di presenza e di significato, segno-non segno che immaginariamente spinge il percipiente all'identità statutaria: «Cosa che sta ferma, sta ritta, che sta in piedi».

Stasi, pietrificazione dell'Io sulla sua spaltung, divisione tanto primaria quanto costituitiva per effetto dell'ambiguità della parola, delle leggi della lingua, delle intenzioni dei significanti senza fine di significato, della eterna ripetizione come ri-cerca di traduzioni ben fatte, bene-dette. Ma anche difesa, parvenza dell'Io che, nella sua stessa indigenza, si protegge con il melanconico manto dell'oggetto divenuto ombra: perduto e per questo irriducibilmente prezioso. Il soggetto dovrà postarsi nella logica del lutto, elaborazione nel segno della separazione, ma sopra tutto, dell'alienazione.

Nel campo dell'Altro prende corpo l'indecidibile e lingua l'indicibile; proprio nell'atto di dirsi il soggetto incontra l'impossibile, reale in gioco, dell'immanenza e il darsi effettivo di una possibilità, contingenza, cum-tangere: ad-cadere, ad-venire, toccare.
Evento di tocco come bagliore. Lampi abbaglianti, seduttori e accecanti fino al nomismo: liturgico soliloquio volto a farla franca una volta per tutte con quella dimensione pulsionale che ci abita attestandosi nel tempo restante in quell'impasto di essere-per-la morte e essere- per-la-vita negli orizzonti di significazione, ma nella ricerca di grazia e salvezza dell'incatenamento significante. Ciò nonostante:

 

[...]. Il nominare non distribuisce nomi, non applica parole, bensì chiama entro la parola. Il nominare chiama. Il chiamare avvicina ciò che chiama. Tale avvicinamento non significa che ciò che è chiamato sia trasferito, deposto, e collocato nella cerchia dell'immediatamente presente. Certamente si tratta di un chiamare a sé, in virtù del quale quel che ancora non era stato chiamato vien fatto vicino. Solo che questo chiamare a sé è appello alla lontanza, nella quale ciò che è chiamato permane come l'ancora assente.

 

Chiamare è chiamare presso. E tuttavia quel che è chiamato non resta sottratto alla lontananza, nella quale proprio quel cenno di chiamata di lontano fa che permanga. Il chiamare è sempre un chiamare presso e lontano; presso: alla presenza; lontano: all'assenza [...][7]

Il dire sull'Inconscio, che “nomina” rappresentazioni, immagini, parole male-dette, scivolamenti, frammenti, è invito a questo a farsi vicino e, al tempo stesso, lontano: r-esistenza nel segno dell'erranza affinchè Inconscio si dia.
L'inconscio può dunque chiamarci dentro la parola attraverso sogni, sintomi, lapsus, atti mancati purchè non si voglia com-prenderlo; in quanto sapere che non si sa, con le sue formazioni ci tocca nella nuda verità della nuda vita.

Taglio... la catena significante inter-rotta. Nel frammezzo della soglia cade un vissuto, una scena dal nulla: ricordo d'oblio. Tra archivio e testimonianza, il soggetto si condensa come resto mobile, che potremmo qualificare come evento di sopravvivenza all'orrore del fondamento-non fondamento, malgrado faccia gioco su tinte di vissuto tragiche e la vita appaia nel dramma,.

Il soggetto toccato tra l'indicibile e l'indecidibile, se è lecito immaginarlo, ricorda lo studente di Bologna in marcia nel trasferimento dei prigionieri da Buchenwald a Dachau. Le SS incalzate dalle truppe alleate, fucilavano a piccoli gruppi tutti coloro che potevano ritardare la marcia. Prendendo a prestito le parole di Antelme, Agamben racconta che un giorno tocca al giovane italiano:

 

«La SS chiama ancora: Du komme hier! È un altro italiano. Uno studente di Bologna. Lo conosco, lo guardo e vedo che la sua faccia è diventata completamente rossa . L'ho guardato attentamente, quel sorprendente rossore l'avrò per sempre negli occhi. Ha l'aria confusa, e non sa che fare delle sue mani... È diventato rosso appena la SS gli ha detto: Du komme hier! Si è guardato intorno prima di arrossire, ma era proprio lui che volevano e allora è diventato rosso quando non aveva più dubbi. La SS cercava un uomo, uno qualsiasi da far morire, aveva «scelto» lui. Non si è chiesto perchè questo e non un altro. E nemmeno l'italiano si è chiesto «perché io e non un altro”»[8]

 

Mani senza posa e algido rossore come calore luminescente della vita e al contempo freddo brivido della morte. Lo studente di Bologna può certamente essere preso come caso paradigmatico. La verità, o meglio, l'autorità di quel che viene detto su questa sciagura non dipende dalla conformità tra il detto e i fatti, fra la memoria e l'accaduto, dalla verità fattuale. L'enunciato viene scavalcato e superato, così come l'io del giovane italiano che muore nell'anonimato e nella vergogna. Dis-dire la vergogna è impossibile e nel rossore, quella vita fisiologica che eccede malgrado tutto, si attesta nel ricordarci la nostra mancante titolarità del corpo che ci abita.

In quel rossore, forse, beffardo che gode al di là dell'inumanità a cui è sotto-posto, sotto-messo, ci mostra che ciò che c'è di più intimo in noi è al contempo esteriorità inassumibile: verità enigmatica quanto epistemica che apre lo spazio all'etica.
La posizione della psicoanalisi è, in un certo senso, sempre quella della testimonianza non della conoscenza dell'umano come nella scienza. Se, come scrive Agamben l'autorità del testimone consiste nel suo poter parlare unicamente in nome di un non poter dire, cioè, nel suo essere soggetto, altrettanto in psicoanalisi il soggetto può parlare nella misura in cui c'è un resto che testimonia per lui.
Un resto che può incorrere in negazione (Verneinung), rinnegamento (Verleugnung) e rigetto (Verwerfung), non necessariamente distrutto, dunque, sicuramente rimosso; nessuno muore così povero da non lasciare nulla in eredità, in questo detto Pascal ci consegna la questione del “resto” come un lascito prezioso non ubicabile in una unicità, in un fine oggettuale, nella composizione di una realizzata identità.

Il resto non consiste in qualche cosa che deve essere ricordato, ma nel suo restare indimenticabile, cioè in quella lacuna tra memoria e desiderio in cui il soggetto si effettua nell'aperto della significazione.
Se la soggettività fa esperienza di povertà, di spossessamento, di radicale nudità e mancanza di titolarità, non per questo significa che non si possa, di questa stessa povertà farne esperienza.

Il sapere psicoanalitico sull'inconscio e le sue formazioni ci espone all'idea di sopravvivenza e alla sua etica, non implicando necessariamente né distruzioni avvenute, né inizi di rendenzione; né la seduzione nel nulla, né la megalomanica illusione di pienezza, né la volontà di potenza nel cogliere un origine precedente come causa sui ad ogni memoria, né suggestionare su orizzonti di senso successivi ad ogni catastrofe. La psicoanalisi ri-vela la risorsa del desiderio indistruttibile e costruisce l'esperienza dell'inconscio nel cuore stesso delle nostre decisioni più immediate, della nostra vita più ordinaria.

Lavoro di tessitura sui bordi che inscrive la vita, quel tempo restante, nel legame erotico e non nel ritrarsi in un ascetico, solipsistico e pessimistico ritiro nella realtà. In-somma: malgrado tutto, la psicoanalisi.

 

 

[Federico Fabbri, psicanalista, psicologo e psicoterapeuta. Socio fondatore dell'Associazione culturale "Extimité - psicanalisi, ricerca e formazione". Specializzato presso la Scuola di Psicoterapia Comparata di Firenze, ha proseguito la sua formazione in Psicanalisi: formazione permanente la cui cifra si costruisce attraverso lo studio e l'approfondimento critico delle opere di S. Freud e J. Lacan e del lavoro analitico personale e collettivo. Svolge attività clinica e di formazione a Firenze in via Fra' Bartolommeo 24.

Il testo qui riprodotto è stato pubblicato come appendice al libro di Stefano Mazzei “La piaga. Apologia del bimbominkia” ed. Press & Archeos 2015]


[1] S. Kierkegaard, Timore e tremore, pp. 133-134, 1999 Ed. Se

[2] G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone, pp.130-131 Ed. Bollati Boringhieri

[3] S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi ,in opere vol.8 p.462, Ed. Bollati Boringhieri

[4] S. Freud, L'interpretazione dei sogni, in opere vol.3 p.111, Ed. Bollati Boringhieri

[5] Ibidem, p. 557

[6] S. Freud, La negazione, in Opere, vol. 10p. 200, Ed. Bollati Boringhieri.

[7] M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, p. 35, Ed. Mursia.

[8] G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone, p.95, Ed. Bollati Boringhieri.

 


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