Si parlava molto di Casablanca a casa mia durante la guerra.
Dicevamo «Casà», abbreviato, come degli habitué...
Marc Augé
"Da qualche tempo ho la sensazione che non vi sia felicità più grande di quella di sedersi a fine giornata in un cinema del Quartier Latin per rivedere un vecchio film americano.
Passando accanto al liceo Fénelon ho accelerato il passo per paura che si stesse già formando la coda davanti all'Action Christine. Non è mai molto lunga, ma tengo particolarmente al mio posto nell'ultima fila. La cassiera, con la quale mi piace pensare mi leghi una tacita complicità, di solito mi rivolge un sorriso di benvenuto quando mi piazzo davanti alla cassa, e l'ouvreuse (la maschera), quando le metto in mano una moneta, mi gratifica con un «merci» che, pronunciato in tono confidenziale, esprime più che una familiarità, una sorta di intimità immemorabile. A dire il vero, mi sembra di conoscerla da sempre, nonostante sia ancora giovane – ha appena quarant'anni. Le maschere dei cinema della rue des Ecoles godono della stessa eternità, soprattutto quella del Champo, che si occupa anche della cassa e avolte esce dalla sua gabbia di vetro per chiacchierare con i vecchi clienti e per parlare del tempo che fa o del tempo che passa.
Ouvreuses: le benevole fate che portano questo nome mi hanno aperto sin dall'infanzia le porte di un'evasione che continua a esercitare su di me un'attrazione irresistibile anche quando ho la sensazione, nei giorni di malinconia, di cercare un'evasione soprattutto nel passato.
Quando ero bambino, i miei genitori, che amavano molto il cinema, mi portavano con loro al Danton – anche perché non potevano certo lasciarmi a casa, da solo – il sabato pomeriggio. Ho frequentato il Danton a otto o nove anni. Vedevo film che non erano per la mia età. I miei genitori scambiavano qualche parola di cortesia con una delle ouvreuses, che, all'epoca, aprivano veramente la porta d'entrata a doppio battente quando iniziava una nuova proiezione, e poi ci guidavano ai posti. Qualche volta arrivavamo in ritardo, il documentario era già iniziato, e loro illuminavano, con un colpo di torcia elettrica, file di ginocchia strette per scovare tre posti uno accanto all'altro. Permesso, mi scusi. Ci infilavamo con il timore di scatenere mormorii di rimprovero. Mi installavo bene o male sul lato alto del sedile che non abbassavo, per vedere meglio lo schermo. Aspettavamo il documentario e talvolta anche un avanspettacolo, un cantante o un illusionista che mi ispiravano sempre una sorta di compassione perché mi rendevo conto che andare in scena al Danton tra il cinegiornale e il film principale non era segno di un gran successo professionale.
Non sono esattamente quello che si può chiamare un cinefilo, no, ho una pessima memoria, ma ho visto tutti i film e posso rivederli senza annoiarmi, proprio perché me ne ricordo solo nel momento in cui li riscopro. Il cinema, o meglio i vecchi film che si vedono nel Quartier Latin, mi ispirano un sentimento di «déjà vu» o di «déjà vécu» che duplica la mia gioia perché due piaceri, normalmente incompatibili, vi si fondono: l'aspettativa e il ricordo.
È entrata una ragazza. Chignon severo e abito austero, ha fatto effetto. È rimasta immobile qualche secondo, come per lasciare al pubblico maschile disseminato nella sala il tempo di ammirare la sua silhouette. Poi ha fatto qualche passo, ha studiato lentamente con lo sguardo le diverse file di sedie, per poi ritornare sui suoi passi e prendere posto vicino alla porta d'ingresso. Il ragazzo stravaccato su una poltrona vicina alla sua si è velocemente ricomposto e, come se non aspettassimo che lei, le luci si sono spente. Stavamo tutti per rivedere Casablanca".1
1 Il brano qui pubblicato è tratto da M. Augé, Casablanca, Bollati Boringhieri, torino 2008, pp. 7-10.